“E il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14)
“Venite, costruiamoci una città…” (Gen 11,4)
“Quando presterai qualsiasi cosa al tuo prossimo, non entrerai in casa sua per prendere il suo pegno” (Dt 24,10)
“La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso stabile per sempre” (2Sam 7,16).
“Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia” (Mt 7,25)
In continuità con gli anni scorsi, tra ‘passività’ e ‘attività’!
Il tema dell’abitare si pone in continuità con quanto proposto gli anni scorsi: la parola e il corpo, per raggiungere il loro compimento (e parafrasare fino in fondo quanto l’evangelista Giovanni ha magistralmente sintetizzato nei primi versetti del suo prologo) hanno bisogno di “prendere dimora” nella vita degli uomini, di “venire ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14).
È un tema che si pone in continuità anche perché, come sempre, ha la pretesa di incrociare un’altra dimensione fondamentale dell’esistenza – e quindi della Fede – quale è quella dell’abitare. Come la vita degli uomini non può prescindere dal parlare e dal porre gesti, così non può fare a meno di ‘trovare casa’, di ‘fare casa’ su questa terra in cui Dio ci ha collocato; e fin dall’inizio, a prescindere dal risultato, pare sia stato proprio così: “venite, costruiamoci una città…” (Gen 11,4).
In altre parole, per entrare in relazione con sé, con gli altri e con Dio occorrono certamente parole e gesti efficaci, ma se questi non prendono dimora, non si radicano nelle pieghe dell’esistenza umana, rischiano di essere lasciati alla mercé del tempo che passa e scivolano via come l’acqua sulla roccia. Se si vuole continuità, occorre prendere dimora, occorre abitare e far abitare.
E già qui si può cogliere una prima sostanziale questione intorno all’“abitare”: nasciamo senza aver avuto la possibilità di scegliere dove abitare e moriamo venendo ‘giudicati’ per dove e come abbiamo abitato ovvero per quello che abbiamo costruito. C’è una passività dell’abitare che non può che essere accolta e c’è un’attività dell’abitare che non può che essere agita in ogni esistenza se si vuole dire degna di essere vissuta.
Tra ‘passività’ e ‘attività’: la prima casa dell’uomo è il corpo
Possiamo dire che la prima casa dell’uomo forse è proprio il suo corpo. Una casa ‘subita’ perché espulsi dal paradiso terrestre della pancia calda della madre e lanciati in un mondo praticamente sconosciuto e a volte insidioso.
Tuttavia il corpo è anche una casa da accogliere ogni giorno di più perché nella casa del suo corpo l’uomo ha misura di sé, acquista una sua posizione, riconosce il senso che ordina le cose: l’alto, il basso, l’avanti, il dietro, la destra e la sinistra.
Tra ‘passività’ e ‘attività’: la seconda casa dell’uomo sono gli abiti
Possiamo continuare dicendo che gli abiti sono come una seconda casa per l’uomo. Gli abiti esplicitano il bisogno di custodire come un secondo grembo il proprio corpo, di impedire ad altri una furtiva conquista del proprio sé. Non può che essere così perché la nudità rimanda inevitabilmente ad una fragilità costitutiva e da custodire: “ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto” disse Adamo e riprese Dio: “Chi ti ha fatto sapere che eri nudo?” (cfr. Gen 3,10-11).
Ma gli abiti sono anche un messaggio, una parola offerta, un ponte sul mondo. Essi non rinchiudono il corpo ma lo accompagnano nella sua vocazione ad esporsi. La pelle nuda è vulnerabile, violabile, come una casa senza porte. Gli abiti invece no. Permettono all’uomo di farsi vedere senza essere divorato come un oggetto. Per questa ragione essi non si accontentano di coprire, di svolgere delle semplici funzioni di protezione fisica, ma vogliono essere belli. In modo da coprire non per nascondere ma per presentare. Gli abiti sono la casa che rendono presentabili quei corpi animati che sono gli esseri umani.
Tra ‘passività’ e ‘attività’: la terza casa è proprio la casa
Per una buona parte dell’inizio della nostra vita, l’abitare si connota come un’azione passiva: “abito qui perché qui mi hanno messo, mi ci sono trovato, perché hanno deciso i miei genitori”.
Col tempo si apprende una modalità diversa di abitare, capace di scegliere e agire cambiamenti, non di subire il già dato. Quando gli uomini decidono di costruire delle case vere infatti – o di terra o di legno o di pietra – non fanno altro che prolungare simbolicamente il desiderio di presenza del proprio corpo. La casa è per l’uomo come un altro corpo. Egli dunque la edifica come modellando attorno a sé l’involucro di un nuovo grembo e infondendogli l’eleganza di un abito su misura. Non a caso l’architettura è da sempre arte di composizione di questi bisogni che hanno segnato nella notte dei tempi l’alba dell’uomo.
In parole povere: tutti i tentativi dell’uomo sono proiettati ad una sola finalità: abitare il mondo. Ma appunto non si può abitare il mondo se non si ha una casa in cui abitare. La casa è lo spazio di mondo che l’uomo può abitare. La casa è quel pezzo di mondo con cui l’uomo riesce a relazionarsi, perché è dell’essere uomo ritagliarsi spazi, abitare solo qualche angolo e mai il mondo intero.
Ancora: l’abitare vero è riuscire a trovare o a creare un luogo in cui star bene, e come ogni trovare, chiede sempre un cercare che rimane sempre una delle prime forme dell’agire (cfr. “maestro, dove dimori?” Gv 1,38).
Tra ‘passività’ e ‘attività’: la quarta casa è la casa per il divino
Lungo quasi tutta la storia umana, l’uomo ha sempre sentito come un compito vitale costruire una casa per il divino. L’invenzione del tempio è il frutto di questo bisogno pressoché universale poiché l’uomo sente che lo spazio non è tutto uguale. Non è una estensione senza differenze. E non basta il proprio corpo a dargli un ordine. Nemmeno la sua casa. Presenze in fondo troppo fragili. Sono quei punti in cui appare innegabile che sia passato il divino.
Quello infatti è il punto esatto a partire dal quale si può dire per tutti dove si trovi l’alto e il basso, le quattro direzioni della terra, il lontano e il vicino. Naturalmente questo punto così prezioso, da cui dipende il senso del mondo, deve essere identificato, per sapere bene che è proprio lì, deve essere delimitato, per ricordarsi che è solo lì, deve essere custodito, per garantire che sia sempre lì. Questo punto così prezioso diventa dunque sacro, separato dal profano.